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Errata la tesi secondo cui la gestante può limitarsi a dimostrare che, ove avesse saputo delle malformazioni del feto, avrebbe interrotto la gravidanza
A fronte della ipotesi di responsabilità medica per omessa diagnosi di malformazioni fetali, il risarcimento del danno da nascita indesiderata presuppone che la gestante dimostri non solo che avrebbe interrotto la gravidanza se fosse stata adeguatamente informata del problema, ma anche che vi erano, all’epoca, le condizioni legittimanti l’interruzione della gravidanza stessa, ossia, in particolare, in caso di gravidanza già oltre il novantesimo giorno, il grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna derivante dalla prosecuzione della gestazione. Questi i punti fermi fissati dai giudici (ordinanza numero 29531 del 15 novembre 2024 della Cassazione), chiamati a prendere in esame la delicata vicenda relativa ad una donna che, ritrovatasi, assieme al compagno, con un bambino con gravi malformazioni, ha posto sotto accusa il proprio ginecologo, sostenendo che quest’ultimo avesse omesso, colpevolmente, di informare lei e il compagno dello stato di salute (e, nello specifico, delle malformazioni) del feto. Secondo la donna, ciò ha inciso sulla sua determinazione di abortire, ossia le ha impedito di ricorrere all’interruzione della gravidanza, cosa che avrebbe fatto se fosse stata avvisata della malformazione del feto. Consequenziale, quindi, la richiesta di risarcimento avanzata nei confronti del medico. I giudici di merito però hanno riconosciuto alla coppia solo la lesione del diritto ad essere informati, mentre hanno escluso il danno da nascita indesiderata. Ciò perché la donna e il compagno avrebbero dovuto provare che la conoscenza delle condizioni di salute del feto avrebbe costituito un grave pericolo per la salute della donna, tale da giustificare l’aborto. Per meglio inquadrare la delicata questione, i giudici osservano che un danno da nascita indesiderata, che avrebbe potuto essere evitato interrompendo la gravidanza, presuppone la prova delle condizioni per abortire: in particolare la prova, trattandosi di gravidanza che ha superato il novantesimo giorno, del grave danno per la salute della donna derivante dal parto. Invece, l’uomo e la donna non hanno allegato, e di conseguenza provato, alcunché da cui si potesse desumere che il parto avrebbe costituito un grave danno per la salute della predetta e che legittimava costei a ricorrere alla interruzione di gravidanza. Ampliando l’orizzonte, poi, i giudici valutano come palesemente errata la tesi secondo cui la gestante può limitarsi ad allegare e provare la sua volontà di abortire, ossia la tesi che può limitarsi a dimostrare che, ove avesse saputo delle malformazioni del feto, avrebbe interrotto la gravidanza. Al contrario, la prova del grave pericolo per la salute della donna, pericolo derivante dalle malformazioni del feto, è necessaria ed è a carico di chi agisce in giudizio. Dunque, non basta, come sostenuto dalla coppia, dimostrare la volontà di abortire puramente e semplicemente, ossia non basta dimostrare che la gestante, ove messa al corrente della malformazione del feto, avrebbe deciso di interrompere la gravidanza. Occorre la prova che esistevano i presupposti per farlo e, segnatamente, il grave pericolo per la salute della donna.
In dubbio la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre di una minore senza la necessaria individuazione di condotte malevole o disfunzionali della donna nei confronti della figlia, ma soltanto di comportamenti ambivalenti o elusivi delle modalità degli incontri protetti.
La decadenza dalla responsabilità genitoriale rappresenta una misura estrema, ovviamente non solo per il genitore ma anche, anzi soprattutto, per il figlio, e quindi essa implica una valutazione solida di non affidabilità del genitore a curare gli interessi del minore, valutazione che può ritenersi solida se fondata su fatti concreti, desunti da indizi gravi e precisi. Questo il punto fermo fissato dai giudici (ordinanza numero 24708 del 16 settembre 2024 della Cassazione), i quali hanno perciò messo in discussione il decreto con cui era stata dichiarata in Appello la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre di una ragazzina di 13 anni ma senza la necessaria individuazione di condotte malevole o disfunzionali della donna nei confronti della figlia, ma soltanto di comportamenti ambivalenti o elusivi delle modalità degli incontri protetti. Utile anche il riferimento al Codice Civile, secondo cui il giudice può pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale nei casi in cui il genitore viola o trascura i suoi doveri ovvero abusa dei relativi poteri, e ogniqualvolta tale violazione, omissione o abuso abbia comportato un grave pregiudizio per il figlio. In sostanza, il provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale rappresenta l’extrema ratio ed è adottabile, quindi, qualora la condotta del genitore si traduca in un grave pregiudizio per il minore. Difatti, per essere precisi, il provvedimento ablativo della responsabilità dei genitori è preordinato alla esigenza prioritaria della tutela degli interessi del figlio: esso non costituisce una sanzione a comportamenti inadempienti dei genitori ma piuttosto è fondato sull’accertamento, da parte del giudice, degli effetti lesivi che detti comportamenti hanno prodotto e possono ulteriormente produrre in danno del figlio, tali da giustificare l’ablazione della responsabilità genitoriale, per l’appunto. Pertanto, se non vi è un concreto pregiudizio per il minore, l’autorità giudiziaria non può intervenire con la decadenza dalla responsabilità genitoriale. Di conseguenza, ai fini della pronuncia di decadenza non è sufficiente che il genitore abbia violato e trascurato i doveri inerenti alla propria veste (in alternativa all’abuso dei relativi poteri), ma occorre anche che da ciò sia conseguito pregiudizio per il figlio e tale pregiudizio deve anche essere grave e certamente, alla luce della struttura della norma, non può ritenersi implicito in ogni accertata violazione dei doveri genitoriali. Occorre, inoltre, la verifica, in applicazione del principio del superiore interesse del minore, della possibilità che tale rimedio incontri, nel caso concreto, un limite nell’esigenza di evitare un trauma, anche irreparabile, allo sviluppo fisico-cognitivo del figlio, in conseguenza del brusco e definitivo abbandono del genitore con il quale abbia sempre vissuto e della correlata lacerazione di ogni consuetudine di vita. Evidente, nella vicenda presa in esame, la fragilità del ragionamento che ha portato alla decadenza della donna dalla propria responsabilità genitoriale. Nello specifico, all’origine del conflitto all’interno della coppia coniugale vi sono state l’adesione della donna ad un gruppo religioso e la partecipazione alle riunioni anche da parte della figlia, partecipazione ritenuta dal padre fonte di condizionamenti e di manipolazione. Tuttavia, la condotta gravemente pregiudizievole della madre non è stata individuata nella sua adesione al detto gruppo bensì nell’atteggiamento di rifiuto, da parte della figlia, del rapporto paterno, atteggiamento continuato anche dopo il provvedimento di sospensione della responsabilità di entrambi i genitori, il collocamento della minore in casa famiglia e il suo affidamento ai ‘Servizi sociali’. In realtà, i giudici d’Appello hanno indugiato nell’analizzare l’origine di questo legame madre-figlia, definito morboso e, a tratti, patologico. A loro parere, è verosimile che il forte legame madre-figlia possa essersi instaurato per via di una grave patologia fisica della donna e a causa delle violente liti dei genitori alle quali la ragazzina ha dovuto in passato assistere. Situazioni, queste, tali da suscitare nella minore un comprensibile senso di protezione nei confronti della propria madre per l’incapacità del padre di rendersi empatico e partecipativo verso la figlia. E tutto ciò sarebbe stato amplificato, sempre secondo i giudici d’Appello, da una separazione di fatto in casa, poi sfociata in separazione legale, che ha visto la madre e la figlia ritagliarsi nella camera della minore una loro intimità, con conseguente esclusione della figura paterna. Il provvedimento di decadenza della madre dalla responsabilità genitoriale sarebbe giustificato, secondo i giudici, anche dall’evitare il rischio che la bambina possa manifestare chiusura totale verso il padre, una volta affidata alla mamma verso cui la figlia mostra sì affetto e forte attaccamento, ma nel senso di una polarizzazione che vede dall’altro capo un forte astio nei confronti del padre. Ma, osservano i magistrati di Cassazione, in una fattispecie caratterizzata dalla crisi nel rapporto con il padre e dal rifiuto della figlia, collocata in una ‘casa famiglia’ e affidata ai ‘Servizi sociali’, di riallacciare i rapporti con il medesimo genitore, la decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre, nei cui confronti la minore nutre invece un forte attaccamento unito al desiderio di tornare al più presto a convivere, avrebbe richiesto l’individuazione di condotte malevole o disfunzionali a carico della donna, non potendo essere ancorata semplicemente su giudizi apodittici affidati a frasi stereotipate (come le “ambivalenze quando si trova ad affrontare cambiamenti nella vita della figlia”) o su aspetti (come l’intensa messaggistica vocale scambiata con la figlia o i colloqui talvolta intrapresi in lingua straniera e a bassa voce, elusivi delle modalità degli incontri protetti) di rilevanza secondaria.
La Cassazione affronta una delicata e dibattuta questione riguardante la valutazione del danno differenziale in un contesto medico-legale complesso
Tizio, colpito da un grave attacco di cuore seguito da una caduta, si trovava a fronteggiare una invalidità permanente. Egli aveva intrapreso un'azione legale contro l'Azienda Ospedaliera, sostenendo di aver subito un danno aggiuntivo dovuto a un'errata prescrizione di farmaci: mentre la terapia anticoagulante era appropriata, l'uso degli antiaggreganti senza una verifica preliminare aveva rappresentato un errore cruciale.
La questione centrale riguardava la valutazione del danno differenziale nel contesto della responsabilità medica. Il Tribunale aveva assegnato un risarcimento di circa 70 mila euro, calcolato sulla base della percentuale di invalidità permanente complessiva del paziente e della porzione attribuibile all'errore medico. La Corte di Appello aveva aumentato l'importo a quasi 215 mila euro, considerando un danno aggiuntivo.
La Cassazione, seguendo i precedenti giurisprudenziali, ha annullato questa decisione. I giudici, infatti, sottolineano che nella pratica della responsabilità medica il danno deve essere calcolato considerando l'effettiva invalidità e sottraendo la parte non imputabile all'errore medico. Nel caso specifico, il danno differenziale avrebbe dovuto essere determinato in modo più appropriato.
La Corte Suprema ha affermato che il grado di invalidità permanente deve essere valutato senza pregiudizi, considerando l'impatto reale dei postumi sulla persona prima dell'infortunio: nel caso in esame, la mancanza di questa valutazione controfattuale ha rappresentato una lacuna sostanziale.
La Corte ha inoltre ribadito che il calcolo del danno differenziale deve essere svolto con rigore, considerando la causalità dell'errore medico: pertanto, in presenza di lesioni non attribuibili all'errore medico, il diritto al risarcimento del danno aggiuntivo può essere riconosciuto solo se la relazione tra i diversi postumi sia di concorrenza e non di semplice coesistenza.
In definitiva, la sentenza rimarca l'importanza di valutare attentamente il danno biologico differenziale con una prospettiva chiara sulla causalità e sull'effettiva incidenza degli eventi sulla salute del soggetto coinvolto (Cass. n. 21261 del 30 luglio 2024).
La donna, pur ispirata da sentimenti sinceri nei confronti della figlia, è inidonea a svolgere il ruolo genitoriale, non essendo ella in grado di assumere atteggiamenti e condotte finalizzati a curare lo sviluppo psichico ed affettivo della figlia
Non basta l’amore sincero per la figlia ad evitare alla madre la decadenza dalla responsabilità genitoriale. Questo il chiarimento fornito dai giudici (ordinanza numero 23097 del 26 agosto 2024 della Cassazione), chiamati a prendere in esame la delicata vicenda relativa al rapporto tra una donna e la figlia.
Nello specifico, si è appurato che la donna, ancorché ispirata da sentimenti di amore sincero nei confronti della figlia, è inidonea a svolgere il ruolo genitoriale, non essendo ella in grado di assumere atteggiamenti e condotte finalizzati a curare lo sviluppo psichico ed affettivo della figlia, anche avuto riguardo ai reiterati comportamenti pregiudizievoli per la minore, più volte riscontrati.
Tale situazione nella donna, caratterizzata da un disturbo della personalità, grave e non transitorio – che secondo ha dato luogo a condizioni cliniche che dopo tanti anni si sono cronicizzate – richiede un percorso terapeutico di recupero finalizzato ad affrontare le criticità che incidono sull’equilibrio psico-emotivo della donna, criticità tali da determinare un impedimento al corretto esercizio delle responsabilità genitoriali, con conseguente incompatibilità con le necessità della minore.
Confermata, quindi, anche la prognosi negativa di eventuale recuperabilità di adeguate competenze genitoriali, poiché, in tale ottica, lo svolgimento di una attività lavorativa (che la donna ha da poco intrapreso) e l’amore nei confronti della figlia non possono esaurire la capacità genitoriale, in considerazione dell’aumentare delle esigenze della minore che richiede un rapporto affettivo con una figura genitoriale che offra garanzia di stabilità e sicurezza. Impossibile, quindi, permanendo le criticità della donna e le esigenze di tutela della minore, ripristinare la responsabilità genitoriale materna.
Respinta l’istanza risarcitoria avanzata da un uomo. Per i giudici è risultata adeguata la linea seguita dai medici
Niente risarcimento per il paziente colpito ictus ischemico dopo avere sospeso l’assunzione della cardioaspirina in vista della sottoposizione ad un’operazione chirurgica.
Per i giudici (sentenza del 14 gennaio 2025 del Tribunale di Lucca) non vi sono i presupposti per addebitare l’episodio infausto alla condotta dei medici e, quindi, alla responsabilità della struttura.
Nello specifico, è emerso che la linea seguita dai medici del ‘Pronto Soccorso’ non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sulla qualità della vita del paziente, risultando invero essa non connotata né da negligenza né da imperizia, ma risultando di contro adeguata e conforme alle ‘linee guida’ e alle buone prassi per il settore di riferimento.
Ancora più in dettaglio, viene sottolineato che il tipo di intervento cui il paziente doveva essere sottoposto presentava un rischio emorragico e, quindi, il suggerimento di sospendere la terapia, laddove sia stato effettivamente fornito, era comunque da ritenersi opportuno.
In ogni caso, non è possibile affermare con ragionevole grado di certezza, osservano i giudici, che sia stata proprio la sospensione del farmaco, nei cinque giorni precedenti l’intervento, a causare l’ictus cerebrale ischemico.
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